Italia, terra di poeti, santi e navigatori. Ma anche di paesaggi incontaminati, grazie ad agricoltori che, alla qualità dei loro prodotti, uniscono il rispetto per l’ambiente, patrimonio di tutti. Proprio in quest’ottica Paolo Bea (un uomo ‘prestato’ al mondo del vino) volle creare, nell’ormai lontano 1973, una delle realtà più affascinanti del territorio di Montefalco. Una classica azienda, nata come ‘casa e podere’, che solo nel 2005 – grazie al figlio Giampiero (architetto, anch’egli rapito dal fascino del succo d’uva fermentato) – è stata rivoluzionata e dotata una cantina di rara bellezza immersa nel verde.

Sulla strada, che domina colline dai dolci declivi, mi sembra che il tempo non passi mai. Giunto a destinazione, nel complesso perfettamente mimetizzato con la natura circostante, trovo ad accogliermi Sergio Dominici, assistente e consulente agrario di famiglia, il quale, con la squisita ospitalità che contraddistingue gli abitanti del luogo, mi avvisa che Giampiero Bea arriverà a momenti, perché vuole presentarmi personalmente i suoi ‘figli acquisiti’, le preziose bottiglie curate a mano, contenenti – prima ancora del magico nettare che tanto ci appassiona – una splendida filosofia di vita. Ai Bea non interessa avere un ente istituzionale che ne certifichi il lavoro, perché questo li distrarrebbe dall’obiettivo principale: conservare nel prodotto i suoi caratteri di genuinità con i minori interventi possibili, sia in vigna che in cantina.

Ciò si traduce nel rispetto totale dei cicli di vita della pianta; nell’abolizione di qualsiasi tipo di additivo chimico, che andrebbe ad impattare inesorabilmente sulle proprietà organolettiche; nell’uso di un torchio a pistoni al posto delle normali presse; nessun lievito selezionato, ma soltanto quelli di origine autoctona. Infine, la riduzione al minimo di rimontaggi e stabilizzazioni forzate, perché, sempre secondo i Bea, «meno si modifica il contenuto, ricco di sostanze dalle mille sfaccettature (pregi e difetti inclusi), meglio si rispetta il prodotto finale». Ogni bottiglia e ogni annata devono mantenere il proprio personalissimo carattere, un corredo aromatico non replicabile, invece che costruito come in una catena di montaggio. 13 ettari complessivi di superficie vitata e ben 7 dedicati al Sagrantino, alla cui diffusione a livello internazionale Bea ha dato un contributo fondamentale, coniando anche il motto (testuali parole, forse sibilline per qualcuno) «Il vino non lo facciamo, ma cerchiamo di generarlo». 

Il terreno – vulcanico in profondità, con sedimenti lacustro-calcarei in superficie, poco fertili, dove la vite ‘soffre’ – limita la produzione, ma aumenta considerevolmente la qualità. Dopo la vendemmia, le uve vengono lavorate all’esterno, con selezioni manuali, dopodiché i vinaccioli, la polpa e il mosto vengono trasferiti in contenitori inox riempiti per tre quarti, senza solforosa aggiunta, per iniziare la fermentazione alcolica. Nessun controllo della temperatura, neppure in fase di malolattica. Lunghissime le macerazioni (30 giorni per i bianchi e 40 per i rossi), per estrarre la maggior quantità possibile di materia, prima del naturale riposo in botti grandi di Slavonia.

Non basterebbe un’ora per descrivere la moltitudine di sensazioni provate ad ascoltare Giampiero, ma occorre necessariamente passare alla degustazione dei vini, guidata da lui stesso. 

Iniziamo con l’Arboreus Umbria Bianco IGT 2012: dovendo restare su scontati clichés, potremmo definirlo un perfetto esempio di orange wine. Trebbiano Spoletino in purezza (è la nuova frontiera del Consorzio di Montefalco), coltivato in vigne alberate costituite da piante antichissime (similmente all’Asprinio di Aversa), affina per 36 mesi in inox. Giallo bruno lucente, al naso si inerpica – come le sue viti – in piacevoli caramelle d’orzo, fiori di mimosa, ginestra, mandorlo, talco e una balsamicità indomabile. Al gusto esplode per freschezza di pompelmo, macchia mediterranea, coriandolo e noce, con peppermint e sapidità finali. 

Segue il Pipparello Montefalco DOC Rosso Riserva 2011 (blend da single vineyard di 60% Sangiovese, 25% Montepulciano e 15% Sagrantino). Dopo ben 51 giorni sulle bucce, invecchia 12 mesi in inox e 26 mesi in botte grande. Al naso, la lieve riduzione iniziale viene poi ben superata da frutta agrumata, rosa rossa e peonia, con bocca perfettamente coerente, tannini già levigati e integrati. 

Proseguiamo con il Rosso De Véo Umbria Rosso IGT 2010. Nato inizialmente come Sagrantino non classificato (con uve da vigne ancora troppo giovani), oggi vi confluiscono invece le uve che non vengono scelte per i top di gamma. Stupisce per la morbidezza dei tannini, grazie non tanto all’uso del legno, quanto piuttosto alle tecniche colturali applicate. A riprova di ciò, ho potuto assaggiare un campione di botte del 2017 dall’incredibile setosità e limpidezza. 

Con il Pagliaro Montefalco Sagrantino DOCG Secco 2010, invece, il colore rosso rubino vira verso i tipici toni granati. Molto balsamico e floreale, esalta punte di ribes nero, pompelmo rosa e fiori freschi. Al gusto si avverte subito un attacco agrumato di particolare intensità, con speziature varie (chiodi di garofano, cannella, noce moscata). Carnaceo e succoso, ha tannini potenti, che seccano le mucose per poi ritornare su sensazioni di bocca molto fresche. 

Chiudiamo questa splendida carrellata assaggiando il Cerrete Montefalco Sagrantino DOCG Secco 2009, con colore granato quasi impenetrabile e fitta trama tannica. All’olfatto miscela sapientemente marmellata di more, prugne sotto spirito, pot-pourri di fiori rossi, mandorla tostata e torrefazione. Sanguigno e denso, si distingue dal precedente per un anno in più di riposo e per la selezione dei grappoli migliori. Lungo e iodato, è risultato pazzesco nell’abbinamento proposto da Giampiero con una fetta di crostata di mirtilli sfornata da poco. 

Mi sono sentito davvero a casa: e sentirsi a casa è facile, quando a guidarci è la passione.