Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Ambrosia, mitico cibo degli dei, al quale gli antichi greci attribuivano il potere di conferire l’immortalità. Certo, pura mitologia…o forse no? E se ne esistesse un corrispettivo, diciamo, ‘meno divino’, ma forse anche ‘più santo’, altrettanto introvabile e prezioso? E se il suo Olimpo non fosse un monte della Grecia continentale, ma una delle Doc più piccole d’Italia, un locus amoenus adagiato sulle colline piacentine?

Ecco, Vigoleno – un’antica roccaforte medievale, dove ancor oggi le mura sovrastano i vigneti della Val’Arda – è tutto questo. Geograficamente una delle Doc più piccole d’Italia, non è di certo un Olimpo enologico, ma sicuramente è il geloso custode di una tradizione antichissima, dove a farla da padrone è il suo gioiello più prezioso, ma anche il più sconosciuto: il Vin Santo. Poco o nulla esiste di storicamente accertabile sulla nascita e produzione del Vin Santo a Vigoleno; come fu per i miti greci, anche per il Vin Santo quasi tutto è affidato alla tradizione orale del borgo e alla memoria storica dei suoi abitanti e dei suoi produttori, che – come un’eredità preziosa – lo tramandano di generazione in generazione.

Entrato a far parte della Doc Colli Piacentini solo nel 1996 (a partire dalla vendemmia 1991), il Vin Santo si qualifica subito come prodotto di nicchia: l’esigua quantità di ettari vitati, i pochissimi ettolitri prodotti e le rese bassissime ne fanno un prodotto quasi del tutto introvabile al di fuori del borgo. Le varietà ampelografiche non aromatiche a buccia bianca impiegate – Melara e Santa Maria, al 60% – sono unicamente ritrovabili in questa zona e devono essere unite, da disciplinare, a un 40% di Beverino e/o Trebbiano Romagnolo e/o Ortrugo. Queste uve sono figlie di un terreno collinare calcareo-fossile dal passato marino, che contribuisce a dare buccia, resistenze e sapidità a suoi prodotti.

Figlio di un procedimento lungo e accurato, il Vin Santo ha la sua genesi in vigna attraverso una vendemmia strettamente manuale, una rigorosa cernita delle uve e un appassimento lungo e controllato in solai arieggiati o in cantine a umidità controllata. Il tutto viene poi torchiato (non pigiato!) fino a 3 giorni di seguito in torchi di anche cent’anni, per stillare ogni goccia del prezioso nettare. Dopo un sonno di 5 anni (i più audaci arrivano anche a 10) in caratelli di rovere (non tostato, ma curvato a vapore), il Vin Santo viene svegliato dal suo riposo e imbottigliato rigorosamente in bottiglie renane.

Questo processo lentissimo e accurato regala un prodotto dal colore ambrato – con toni che vanno dal miele al caffè, a seconda del grado di affinamento – e un aspetto altamente consistente, che appaga gli occhi con movimenti lenti e suadenti nel bicchiere.

Il naso, fine e avvolgente, è un bouquet di frutta secca, miele, caramello e fichi, ritrovabili al palato con un gusto rotondo, pieno e morbido. Alcolicità e acidità ben si bilanciano, lasciando sul palato sapidità e persistenza. Sono ritrovabili in chiusura piacevoli note ossidate, con un’esplosione di mandorla, amaretto e liquirizia, al termine di un’esperienza gustativa rilassante, meditativa e, forse, divina.

Federica La Marca, diplomata nel 2015 sommelier presso Alma, la scuola Internazionale di Cucina Italiana, è appassionata di viaggi e food&wine, gira l’Italia e il mondo alla ricerca di storie di persone che, con coraggio e passione, al settore vinicolo – e al mantenimento della sua memoria storica – hanno dedicato la vita.