Un’intera giornata trascorsa in un labirinto di contenuti. La Borgogna richiede un certo sforzo per essere compresa appieno: storicità, geologia, legislazione e molto, molto altro… Lo testimonia una bibliografia specialistica vastissima. Tuttavia, da appassionata studentessa, un pensiero ha preso prepotentemente il sopravvento su tutti gli altri nella mia testa; un pensiero che si è formato nel recepire e prendere coscienza della devozione – o, meglio, della dedizione – dei produttori borgognoni per la pratica vitivinicola.

Si aprono dentro di me le porte della dimensione filosofica, e in particolare dell’etica. Il termine ethos è semanticamente ricco e complesso, tuttavia in questo caso è possibile estrapolarne tre nuclei significativi. Il primo racchiude le sfere della dimora e dell’abitazione; il secondo quelle del costume, della consuetudine e dell’abitudine; il terzo quelle del carattere e dell’indole. Tale premessa di natura etimologica conforta l’assunto di come l’uomo nasca, cresca e viva in uno specifico ethos, inteso come insieme di costumi, abitudini e tradizioni che lo determinano e lo condizionano. È un legame immediato, l’uomo si immedesima in esso. E questa è la radice comune con coloro che si occupano del vigneto e del vino in Borgogna: l’io si dissolve a favore di una totale immedesimazione e dedizione all’ecosistema viticolo. Non è un uomo a fare o connotare il vino: è un terroir, è un ethos. 

Con questi pensieri a farmi eco in testa, la degustazione di questa bottiglia n. 16849 di Romanée-St-Vivant Grand Cru Marey-Monge 2014 Domaine de la Romanée-Conti ha immediatamente richiamato nella mia mente quella particolare parcella del vigneto (l’unica proprietà dell’AOC a superare l’ettaro), la sua morfologia geologica, la sua esposizione, la pendenza, l’altitudine. Tutto mirabilmente trasfigurato in vino.

Il colore che richiama è il rosso granato, ma è sicuramente la sua trasparenza a destare l’interesse e l’immaginazione: si fa attraversare dallo sguardo e uno sguardo attento e vivace non può che vedere in quella trasparenza i grappoli di Pinot Nero maturare lentamente nel tiepido Settembre di un’annata piuttosto difficile. Portando il bicchiere al naso, l’esercizio degustativo registra un dinamismo fatto di spezie dolci, castagne, canditi, cuoio e qualche traccia ematica, per tornare ancora all’arancia candita e alla confettura di ciliegia… Poi l’esercizio dell’immaginazione fa chiudere gli occhi, per ammirare meglio la migliore espressione della sua scultura: un vino che si esprime con grazia, ricchezza ed eloquenza, ma senza alcuna esuberanza, in un profilo olfattivo di aurea proporzione.

In ultima battuta, il sospirato ingresso in bocca è austero e vibrante, ma poi si ricrea rapidamente il giusto equilibrio, per dare spazio a un altro sorso, quindi a un altro e un altro ancora… fino al bicchiere vuoto. 

Ma con la mente riempita da una certezza: questo vino ha un tale fascino e una tale profondità da evocare – in un ultimo paragone classico – ciò che la Grecia antica seppe fare con coloro che tentarono di conquistarla: «Graecia capta ferum victorem cepit»(‘La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore’). È proprio così: la Borgogna entra nel bicchiere e si fa bere, ma alla fine è lei a possedere colui (o colei) che la beve.