In questo delirio da CoViD – lungo e buio, nonostante un sole beffardamente pieno e persistente – i pochi sprazzi di luce hanno provocato accecanti bagliori. Ma erano davvero reali, quelle luci nel buio, o erano piuttosto frutto del nostro bisogno di vederle? «Di notte è molto strano, ma il fuoco di un cerino ti sembra il sole che non hai…» mi capita di pensare ogni tanto, citando una canzone di grande successo negli anni ’60 (che ci volete fare, ognuno ha i propri riferimenti culturali…). Nel caso di questo vino, non ho dubbi: era reale. Ecco perché.

Da qualche tempo mi era venuta voglia di affrontare un argomento non proprio vitale, anzi, del tutto forzato e praticamente inutile: come misurare il rapporto qualità-prezzo nel vino. Mi sarebbe piaciuto riuscire a trovare un’unità di misura empirica a un concetto astratto, soggettivo e individuale, legato allo stile di vita e alla situazione sociale e ambientale di ciascuno, oltre che al gusto personale. Ma un concetto così intimo – quasi legato al DNA delle singole persone e quindi aleatorio – è impossibile da catturare e da descrivere. E così… niente, l’avevo messo di nuovo da parte.

Durante la quarantena, con alcuni compagni di bevute ci siamo fatti mandare da un caro amico oste alcuni vini da isolamento, buoni ma non troppo costosi: roba da bere in casa da soli, insomma. Abbiamo preso anche vini uguali, per stapparli in contemporanea e scambiarci opinioni in videochiamate scacciapensieri, spesso con derive vaneggianti. 

Nei giorni successivi un’amica mi ha fatto partecipe del suo entusiasmo per un vino che l’aveva particolarmente sorpresa. Eppure era un vino conosciuto, che avevamo già assaggiato (di altre annate, in altri contesti e insieme ad altri vini, forse più prestigiosi), già memorizzato come «ben fatto, di grande beva, tipico e territoriale» e archiviato con piacere tra i vini amici, quelli fidati, da ribere. Prima che finisse di parlare, le ho confessato che qualche giorno prima – degustando la mia bottiglia – avevo avuto le stesse impressioni, ma mi ero guardato bene dal manifestarle, convinto che fossero dovute totalmente all’astinenza covidiana.

Contento di aver recuperato la mia capacità di giudizio, mi sono quasi entusiasmato: non era il CoViD, era tutto vero! E di colpo mi è tornata in mente la frase con cui avevo chiosato la mia degustazione: «Eccolo, un vino con un ottimo rapporto qualità-prezzo!». Proprio così. Come conseguenza, il giorno dopo ho aperto un’altra bottiglia e – nonostante le aspettative molto più alte – ho ricevuto con piacere una totale conferma, che mi ha stampato in faccia un’espressione soddisfatta, non importa se non proprio intelligente. Tanto, avevo la mascherina.

Questo Langhe DOC Nebbiolo 2016 di Giuseppe Cortese – prodotto a Barbaresco con sole uve Nebbiolo – ha il tipico colore granato e al naso esordisce con un floreale di viola mammola e petali di rosa che preannuncia una bella bevibilità, di quelle scorrevoli e gradite. Neanche il tempo di ragionarci che arrivano note mature di ribes e ciliegia, supportate da sentori terrosi e di sottobosco (foglie e funghi), tabacco, note tostate e fumé. In bocca entra delicato, per riepilogare in successione dinamica i passaggi già scanditi al naso, ma arricchendoli di quelle caratteristiche che fanno spesso grande la beva: una bella freschezza, un tannino ben integrato e composto e la chiusura sapida. Un piccolo appunto? Forse non è un vino lunghissimo. Ma se la bocca ne trae piacere sia all’ingresso che al retrogusto – prima di lasciarsi asciugare da una piacevole astringenza e da toni sapido-minerali leggermente amarognoli – e poi pretende subito un bis, sapendo che non le basterà, che si vuole di più? Se fosse stato anche lungo, ne avremmo bevuto molto meno. E viene il sospetto che il produttore abbia tenuto conto anche di questo, producendo questo piccolo Rabajà. E un’annata forse eccezionale ha fatto il resto. 

Ooops!… Stavo per dimenticarmelo: grazie, Francesco! Metti da parte un’altra cassa, andrà bene anche fuori quarantena.