Mi sembra di vivere un flashback, perché ho vissuto l’Australia nel 2013 (ma tu guarda il caso, proprio l’annata di questa bottiglia…), in un viaggio-avventura iniziato con un piccolo zaino in spalla e con un grande bagaglio di esperienze da riempire, alla scoperta di un nuovo mondo, molto lontano dal nostro e visto solo in TV. È proprio nel momento in cui mi presentano questo vino che i ricordi mi riaffiorano, vividi e freschi, come se fosse ieri, perché in quel viaggio una delle mie mete fu il Big Desert Wilderness Park e, percorrendo la strada per raggiungerlo, passai proprio davanti alla Treasury Wine Estates, nello stato del South Australia, dove si produce questo meraviglioso vino. Devo dire che, purtroppo, le mie conoscenze sul vino erano allora molto basilari, rispetto a oggi, e non fui preso dalla curiosità di visitare quest’azienda dalla storia controversa, che iniziò la produzione nel 1951, su iniziativa di Max Schubert, grande idealista ed enologo, che dedicò la sua intera vita a questo vino e che la critica enologica stroncò a gran voce, affermando addirittura che il vino aveva sentori di acido formico. Tale giudizio portò nel 1957 alla cessazione della produzione, ma Schubert non si diede per vinto e continuò a perseguire il sogno di produrre quello che per lui restava un grande vino da evoluzione, lavorando segretamente nelle vendemmie a seguire, fino a che, nel 1960, gli fu concesso di riprendere la produzione. Iniziò così a collezionare alcuni tra i più prestigiosi riconoscimenti: nel 1971 il Grange ricevette il premio come miglior vino degli anni 70, il 1995 fu nominato tra i 12 migliori vini del 20° secolo da Wine Spectator; la vendemmia 2008 ricevette 100/100 dall’autorevolissimo Robert Parker Wine Advocate.

Siamo di fronte a un blend a maggioranza Syrah (96%), con un 4% di Cabernet Sauvignon, che matura per 20 mesi in botti nuove di quercia. Il colore è decisamente impenetrabile (cuore nero opaco e bordatura rosso scura), con qualche sedimento nel bicchiere del tutto plausibile, data la carica in antociani. Al naso c’è un assalto aromatico che inebria le narici, con una miriade di profumi stratificati quasi a creare un labirinto in cui si incrociano e si nascondono, per poi ripresentarsi – sorprendendoti alla grande ma senza mai farti perdere il filo conduttore – con un’ondata di sentori, quali la salsa hoisin (una glassa di soia fermentata), miscelata con note di frutti più giovani, come il ribes nero e l’amarena, speziatura di cannella e liquirizia, seguite da note di pepe nero e legno di sandalo, ginepro e – wow! – mi rendo conto che sto sprigionando emozioni a ogni inspirazione… Al gusto, avverto una delicatezza e una finezza incredibili, supportati da una struttura solida come una roccia, che si lascia andare alle carezze del palato: è un po’ come invitare a ballare una donna, che in un primo momento rimane un po’ rigida ma poi si lascia andare e sfodera tutto il suo carattere, accompagnandovi (anzi, guidandovi!) in un ballo che non dimenticherete.

È veramente un’esperienza fortunata poter bere un vino di questa caratura, formidabile al primo sorso e ancor meglio al secondo e al terzo, nei quali sentiamo accumulare sempre più un’autorevolezza senza lacune, con un tannino di potenza granitica bilanciato da un’ottima acidità e da una moltitudine di frutti neri, come mirtillo e mora, liquirizia e fico maturo, cardamomo e una leggera nota pepata… Altri sentori? Da dove ripartire, in questo groviglio di sensazioni continue e sovrapposte? 

In ogni caso, dategli tempo, a questo prodotto eccezionale, lasciandolo riposare 20, 30 o 40 anni, perché solo chi riuscirà ad aspettarlo potrà scoprire di che cosa è capace. Insomma, come dicono gli australiani: «Time, please».