Ci sono persone alle quali ci si può affezionare a prima vista. Luciano Ciolfi è una di queste, chiunque lo conosca può confermarlo. Non voglio fare torto al suo lavoro, ma mi capita di pensare che i suoi modi da affabile e misurato gentiluomo contribuiscano a rendere ancora più apprezzati i suoi vini. Il suo Brunello di Montalcino Bramante (sia annata che Riserva, quest’ultima prodotta soltanto in annate particolarmente favorevoli) è uno dei più premiati di questo inizio di secolo: un vino connotato dalla diversità di ogni annata e fedele al suo terroir, quindi una garanzia di qualità, di gusto e di rispetto del consumatore.

A San Lorenzo – versante sud-ovest, con vigne a 500 metri, farcite di sassi benedetti – si produce anche Rosso di Montalcino, ovviamente. E per fortuna. Perché altrimenti a Terre di Toscana 2020 non avremmo potuto provare un’emozione così forte e inaspettata.

«Ma sei matto?», ricordo di aver detto (o, forse, di aver pensato di dire) a Luciano mentre ci versava da un’austera Magnum un assaggio di Rosso di Montalcino DOC 2005, un Sangiovese Grosso che un’annata considerata sfortunata aveva fatto giudicare indegno di diventare Brunello e vestito quindi della sua livrea minore. Oltretutto, il colore lasciava indifferenti e la scritta 2005 sull’etichetta – annata osteggiata e quasi maledetta ancor prima della vendemmia – abbassava ancor di più le aspettative. Poi abbiamo portato il calice al naso e – immediatamente – ho maledetto la mia superficialità e ho giurato a me stesso che mai più sarei caduto nella trappola di chi si fa un’idea del vino basandosi su pregiudizi alimentati dall’annata e dall’aspetto. Certo, il colore conta (quante volte ci siamo fatti ammaliare da trasparenze, intensità e tonalità affascinanti e invitanti alla beva?), ma quante volte il colore e l’annata si sono rivelati luoghi comuni? Fake. Eravamo davanti a un altro fake. Perché quel Rosso, al naso, aveva un’eleganza – sottile e sicura, ma quasi disimpegnata, senza alcun accenno snobistico – impensabile alla vista. La ciliegia stava diventando matura, ma era ancora croccante e non copriva le note floreali (sic!) della violetta, prima che i sentori tostati facessero capolino, senza sovrastarsi, in una fortunata sequenza olfattiva: inchiostro di china, grafite, note ematiche e balsamiche e quindi ancora frutti scuri, ma freschi e mai invadenti. 

Ci siamo guardati, con aria incredula, e abbiamo respinto la voglia di passare subito al sorso. Niente da fare, dopo tre riprove era tutto vero, e così l’abbiamo assaggiato. E abbiamo fatto bene. L’ingresso in bocca confermava con coerenza le sensazioni olfattive, ma con una profondità, un’acidità e una sapidità da Brunello di gran classe, bevibile all’infinito e durevole all’infinito, con note tostate accompagnate da prugna matura e sporadici richiami di cannella. Le note più cupe (inchiostro, terra, carne, goudron e sottobosco) facevano capolino quasi a turno, ma sottili, senza sovrapporsi, rendendo il sorso instancabile, grazie anche alla freschezza e alla mineralità, che non cancellavano niente e non ripulivano niente, perché non c’era niente da pulire o cancellare. Una dinamicità educata, con i diversi gusti compenetrati e complementari, in un’alchimia imprevedibile e – inutile che io continui a provarci… – difficile da comunicare, quasi inspiegabile. Fortunati noi che eravamo lì e che l’abbiamo provata, perché questo tentativo di raccontarla non riesce a rendere l’idea della ‘profondità dinamica’ di questo vino.

Chiudo qui, ma con due considerazioni. La prima ha un risvolto triste, perché mi sarebbe piaciuto condividere questo vino con un amico sfortunato, che mi avrebbe convinto a volare più basso e a raccontarlo in maniera più comprensibile. E lui sarebbe ancora più orgoglioso di essere quel grande amico che è di chi sa produrre un vino così. Bravo Luciano.

La seconda considerazione è meno seria, ma doverosa: tanto di cappello, signor 2005, scusaci per tutto quello che abbiamo detto e scritto su di te. Il tempo rende giustizia a chi sa aspettare.