Davanti a me troneggia una speciale bottiglia di Bordeaux, che racchiude un vino dalla storia secolare, stratificatasi nel tempo e consolidatasi in un vero e proprio stile enologico, riconosciuto ed emulato in ogni angolo del globo. Un vino che per prima cosa racconta le origini del suo mito, che sono profondamente radicate nei sottosuoli ghiaiosi a sud di Pauillac, lì dove il ruscello di Juillac finisce la sua breve corsa nella Gironde. In questo panorama fluviale e semipianeggiante si nota come la mano dell’uomo abbia contribuito a scolpire questo lembo di terra, già modulato dal corso del grande fiume. Terreni poveri – alcuni dei quali strappati all’erosione acquatica grazie alle bonifiche olandesi del XVII secolo – che vedono l’unione di arenarie, marne e calcare, e sono sormontati da uno strato superficiale di ciottoli alluvionali. Suoli molto drenanti, ottimali per lo sviluppo vegeto-produttivo del Cabernet Sauvignon – che proprio in questo areale trova le sue migliori espressioni qualitative – e in seconda battuta del Merlot, che uniti creano la ricetta del famoso taglio bordolese. Il blend, imitato in tutto il mondo, è nato nelle cantine degli châteaux del Médoc per la necessità di unire le diverse caratteristiche dei loro due vitigni principali: lo sposalizio tra il Cabernet (rustico e maschile) e il Merlot (morbido e femminile) ha permesso ai bordolesi di raggiungere una corroborante alchimia, fatta di complesse sfaccettature organolettiche, che recitano all’unisono nello spettacolo dei vins de Bordeaux. Come spesso accade, idee geniali e ambiente vocato non sono sufficienti per raggiungere l’affermazione commerciale necessaria a creare un marchio capace di collocarsi in quello spazio di eccellenza che occupa tutt’oggi. Per fortuna, i négociants beneficiarono dei privilegiati rapporti commerciali con l’Impero Britannico, trovando nella naturale vocazione portuale di Bordeaux il mezzo ideale per la diffusione della loro concezione enologica, racchiusa all’interno di un contenitore nuovo e particolare come l’iconica barrique bordolese da 225 litri. La crescita di valore dei vini di Bordeaux fu tale che già il 14 Aprile del 1855 venne redatta una loro classificazione ufficiale, divisa in cinque classi, atta a sottolineare le differenze qualitative tra i vari châteaux, che da quel giorno assunsero la valenza di veri e propri crus.

Quello che ho davanti è uno dei cinque Premiers Grands Crus Classés del Médoc, un affascinante Grand Vin de Château Latour Pauillac 1986: una bottiglia rara, che al suo interno contiene un vino dal retaggio nobiliare, nato in un periodo storico in cui si ricercavano grazia e vivacità gustative. Osservando la bottiglia mi sento rapito in un sogno ad occhi aperti, nel quale la mia mente corre a fantasticare tra le vigne sassose di Pauillac, portandomi fino ai maestosi cancelli di Latour, ma purtroppo, proprio mentre si stanno aprendo per farmi entrare, un improvviso sobbalzo mi desta da questo piacevole incanto. 

Tornare con i piedi sulla terra mi è difficile: ora le mie aspettative sono aumentate a dismisura e ho sempre più voglia di farmi eccitare da questo regale frutto del tempo, che ai miei occhi si presenta dotato di una verve luminosa inaspettata, capace di mettere in secondo piano un colore segnato dal tempo, un rosso granato scuro che sui bordi vira già verso l’aranciato. Al naso presenta una costruzione sensoriale stratificata e complessa, che inizialmente esprime ruggine, lavanda, canfora e oli essenziali di agrumi. La permanenza nel calice non lo affatica, anzi ne esalta il ringiovanimento aromatico, che, con il passare dei minuti, spoglia il vino dagli artifici terziari per lasciarlo nudo e sincero davanti a me, lasciandosi decifrare con facilità e dimostrando un’anima conturbante, resa lieve e graziosa da caratteri floreali che descrivono un candido e profumato bouquet nuziale. La scia speziata è carica di suggestioni, che vanno dal cardamomo secco, passano per il sigaro spento e arrivano sino alla tanto attesa scatola di sigari. In bocca si presentano i tocchi varietali del Cabernet Sauvignon (prevalente in questo blend), che spingono un tannino ormai lieve a dar cenno della sua docile presenza. La sottigliezza fruttata gira intorno a frutti aspri, come ribes e melagrana, che evidenziano la vibrante carica acido-sapida del suo estratto secco. Il sorso ha uno scorrimento nobile, che – una volta completata la deglutizione – sembra acquietarsi in uno strano silenzio, ma è solamente una questione di secondi perché poi, con mio immenso stupore, riaffiora e si lancia nel suo ultimo atto di vita, esprimendo persistenti ricordi di cioccolato fondente, incenso e cenere di sigaro.
È un vino privo di note alcoliche, sussurrato, elegante e ossuto, in cui l’estratto secco prevale sulla forza alcolica, un vino capace di insegnarmi un gusto antico, quasi primordiale, legato alla ricerca della pacatezza e dell’eleganza. Se è vero che ‘un vino senza passato è un vino senza futuro’, allora questo Château Latour 1986 è un vino senza tempo, in cui l’anima e lo spirito hanno elevato il succo a materia eterna.