Un’analogia etimologica suggestiona la visita a Monteraponi. L’analogia è con Montrachet, il monte rasato della Côte d’Or (da “Mont Rachaz”, monte calvo, cioè privo di vegetazione). Anche Monteraponi è un monte “rapato”: è brullo e sulla sommità il bosco di querce cede il terreno ad arbusti bassi e radi. Ma le analogie borgognone a proposito dell’azienda agricola di Monteraponi non finiscono qui.

Michele Braganti, alla guida dell’azienda, è un appassionato conoscitore della Borgogna e dalla Borgogna ha preso più di un’ispirazione, come vedremo. Nel realizzare la sua impresa hanno contato sicuramente, fra le altre cose, il suo carattere caparbio e la disponibilità di un terroir particolarmente vocato. Oggi può contare anche su una donna energica come Alessandra Deiana, che lo affianca nella vita e nella professione e che ci ha guidato durante visita al borgo e alla cantina, prima che Michele ci raggiungesse per la degustazione.

Borgo di Monteraponi
Il borgo di Monteraponi

Si arriva a Monteraponi da una deviazione sterrata della strada tra Radda e Castellina in Chianti, su un crinale roccioso e abbastanza aspro tra le valli dell’Arbia e della Pesa. In prossimità di Monteraponi,  il ‘monte rapato’ (650 metri s.l.m.) protegge proprio il vigneto più importante, quello del Baron’Ugo, esposto a sud-est.

Più in basso, a 480 metri di quota, si trova il borgo medievale, di cui la famiglia Braganti acquistò la parte centrale nel 1974, insieme a 200 ettari di terreno circostante. Dopo la ristrutturazione degli edifici, nel 1998 Michele ha iniziato la propria avventura di vigneron, compiendo una scelta controcorrente: mentre in Toscana si accoglievano a braccia aperte varietà internazionali e barrique, infatti, Michele decise di mantenere le vigne esistenti con i vitigni toscani e di utilizzare la tecnologia già presente in azienda (vasche di cemento e botti).

Vigneto Monteraponi
Il vigneto del Baron’Ugo

Per qualche anno la sua azienda ha venduto le uve e solo nel 2003 (annata caldissima, peraltro) ha imbottigliato per la prima volta il frutto della vendemmia. Col tempo ha restaurato le vasche di cemento e più tardi ha acquistato anche due tini troncoconici in cemento, a base ellittica, guarda caso dalla Borgogna. È proprio in questi nuovi tini che vinifica i due cru: Campitello e Baron’Ugo.

La scelta del cemento si basa sulla sua capacità di far respirare il vino e la forma troncoconica a base ellittica favorisce il continuo movimento dell’uva all’interno. Michele controlla i processi enologici intervenendo il minimo necessario: fermentazione spontanea, senza aggiunta di lieviti e senza controllo della temperatura; macerazioni lunghe – anche di 46 giorni – e rimontaggi frequenti. Per evitare il rischio di riduzione, i primi rimontaggi avvengono a contatto con l’aria. Anche la fermentazione malolattica è svolta in cemento, semplicemente aumentando la temperatura in cantina.

Monteraponi - botti
Le botti di origine borgognona

I riferimenti alla Borgogna continuano nella scelta della tecnologia: dalla Borgogna proviene anche la diraspatrice, scelta per garantire l’integrità della buccia di acini così delicati, come quelli del Pinot Nero. Dal 2011 provengono dalla Borgogna anche le botti utilizzate per Campitello e Baron’Ugo: sono botti ovali, il cui rovere ha tessitura fittissima e tostatura delicata, per una maturazione lenta del Sangiovese. Il vino resta nella stessa botte per il periodo necessario, lasciando che si chiarifichi naturalmente per sedimentazione, senza uso di filtri. Un’ulteriore sosta in cemento permette di completare la pulizia del vino prima dell’imbottigliamento, eseguito con aggiunta limitata di solforosa (siamo nell’ordine di 70-80 g/hl, al di sotto dei limiti del biologico). Tutte queste attenzioni servono a preservare la qualità di una materia prima selezionatissima: le rese di uva per ettaro sono di appena 40 quintali. Le varietà coltivate, oltre al Sangiovese, sono quelle che erano presenti da sempre: Canaiolo, Colorino, Trebbiano e Malvasia.

Monteraponi
I vini in degustazione il 20 aprile 2018 a Monteraponi

I principali vini aziendali sono 3 rossi, a base Sangiovese. Le uve bianche vengono appassite per fare il Vin Santo, ma da qualche anno si è progettato un Trebbiano in purezza, che, seguendo la consuetudine borgognona, abbiamo degustato per ultimo. Tutta la produzione è certificata biologica.

Il Chianti Classico è prodotto con 95% di Sangiovese e 5% di Canaiolo delle piante più giovani e fa un élevage relativamente breve. L’annata 2016 si distingue al naso per la fragranza del tratto floreale e in bocca per la freschezza gustativa, che lo rende scattante ed estremamente bevibile. Ma è stato sorprendente trovare ancora freschezza e bevibilità nell’annata 2003, la prima prodotta: se alla vista è evidente la tonalità aranciata, il naso sviluppa un fruttato evoluto di amarena sciroppata, marron glacé e tamarindo, insieme a spezie e cuoio, e la bocca è pienamente gustosa e minerale, ma soprattutto viva.

Il Chianti Classico Riserva Campitello  è fatto con uve di Sangiovese (90%), Canaiolo (7%) e Colorino (3%) coltivate nel vigneto omonimo, che è il più vecchio – a 420 m di altitudine, esposto a sud-ovest, su un mix di alberese e galestro – ed è anche il primo a essere vendemmiato. L’annata 2015 ha carattere estroverso, con profumi stratificati di frutta, erbe aromatiche e spezie. L’ingresso in bocca appare sottile, ma in realtà il vino si espande progressivamente, proprio come un Puligny-Montrachet. Acidità e sapidità, squisitamente raddesi, delineano la personalità del vino, che è dotato di tannini dalla trama finissima e che si rendono artefici di un’armonica pienezza in bocca.

Il Baron’Ugo è nato nel 2006, vinificando separatamente l’uva del vigneto più alto e l’ultimo a giungere a maturazione. Inizialmente etichettato come Chianti Classico, dal 2012 Michele lo ha collocato (polemicamente) fuori dalla denominazione, non potendo rivendicare la tipologia Gran Selezione, per la quale è richiesto un minimo del 13% di alcole. Il Baron’Ugo è quindi un Toscana IGT, ha lo stesso uvaggio del Campitello e affina per 3 anni in cantina. L’annata 2015 si presenta con luminosità e trasparenza spiccate e mette in mostra un carattere austero nell’espressione olfattiva, che da un floreale appassito arriva a note minerali importanti, quasi di goudron. In bocca dimostra un’articolazione notevole e i tannini sviluppano una texture raffinata e progressiva che si fonde con un’ottima sapidità. È un vino da conservare in cantina per anni e dà il meglio di sé nella persistenza dopo la deglutizione, come un Grand Cru di Pinot Noir della Côte d’Or.

Quella del Trebbiano (Colli della Toscana Centrale IGT) è una vinificazione particolare: la fermentazione alcolica inizia in cemento, a contatto con le bucce, col 30% di uva non diraspata; dopo 6 giorni, quando la parte solida inizia ad alzarsi, il vino viene pressato e separato dalle bucce, per terminare la fermentazione in pièces borgognone non tostate, ma piegate a vapore. Non svolge la malolattica e resta a contatto con le fecce fini per 8 mesi, durante i quali si eseguono batonnâges. Dopo una chiarifica il vino è imbottigliato e si affina ancora per diversi mesi in vetro. L’annata 2016 si presenta con qualche velatura. Ha profumi accattivanti di tè verde, verbena, pera, pesca, scorza d’arancia e propoli, ma altri ne svilupperà col tempo. In bocca è un vino solido, con nerbo acido e gustosa sapidità; nella lunga chiusura ricorda quasi un biscotto all’arancia.

A parte, in un’intervista a tu per tu, Michele ci parla di cambiamento climatico, di cosa significhi per lui fare vino a Radda in Chianti e del suo ultimo nato, il Trebbiano.