Parlare del Riesling non è mai semplice, neppure quando si professa esperienza e competenza. Da parte mia, ho sempre pensato che il termine stesso fosse uno scrigno che racchiudeva numerose sensazioni da quando mi capitò di ritrovarmi al cospetto di cotanta maestà in una serata natalizia di qualche anno addietro. Come in ogni favola che si rispetti, tutto ebbe inizio con «c’era una volta». E quella volta c’era un Riesling della Mosella, vendemmiato nel 1979 e amorevolmente versato in una caraffa per attenuare l’odore di cherosene e armadio chiuso tipico dei vini bianchi dalla lunghissima evoluzione. Fu amore a prima vista, che fece di questo nettare una passione di vita, al punto che devo soffermarmi ovunque ci sia un banco degustazione con un Riesling, in particolare di produttori tedeschi e austriaci, pur senza disdegnare alcune aziende dello Stivale, ormai abilissime a crearne notevoli esempi.
E così, nel movimentato appuntamento fiorentino di Food & Wine in Progress 2018, ho colto l’occasione di poter degustare vari Riesling, tra cui faceva spicco un TBA (il benedetto acronimo dell’interminabile Trockenbeerenauslese) di gran classe, ideato e vinificato dall’azienda Van Volxem di Roman Niewodniczanski.
Non voglio certo mettermi a scrivere – qui e ora – un trattato storico-scientifico sul Riesling e sul vino tedesco: ne esistono già di ottimi, a partire dalla colonizzazione romana di quei territori per arrivare ai nostri giorni. Sappiamo tutti che il vino è stato per secoli una fonte di sostentamento, un prodotto totalmente energetico e salutare, grazie alle proprietà antisettiche dell’alcool post-fermentativo. E sappiamo molto sulla Mosella, ma molto meno sulla Saar (Mosel-Saar-Ruwer, per la precisione) della quale si è parlato poco o nulla, rispetto ai vicini di casa, ma deve esserci un buon motivo se la zona di Altenberg viene paragonata addirittura a Montrachet per qualità, spiccata acidità e longevità, con sentori meno morbidi e meno dolci di zone vitate a Riesling anche più celebrate.
C’è chi afferma che l’acidità sia tutto nel vino; non è vero, o – meglio – non basta. La struttura è sempre fondamentale e quella presente nel Riesling TBA Scharzhofberger 2011 di Van Volxem è davvero impressionante, non soltanto per i ben 351 g/l di zuccheri a fronte degli 11,8 g/l di acidi organici. Ha un colore giallo oro talmente luminoso che metterebbe in ombra i gioielli della Corona, una densità cremosa e una scorrevolezza appena accennata che ci rendono impazienti, mentre al naso emerge un coro polifonico di sentori che colpiscono i sensi da ogni lato: miele di acacia, zenzero, pepe bianco, cannella, ma anche pesca sciroppata, cedro candito, albicocche disidratate, maracuja e mandorle tostate. Potrebbe bastare questo elenco a dare l’dea di cosa abbiamo di fronte, e invece manca ancora la parte finale e decisiva, il possente convitato di pietra di mozartiana memoria: l’assaggio. E qui si evidenzia la difficoltà del sottoscritto a descrivere un gusto praticamente immortale, che mi fa pensare a quel ‘velluto’ storpiato da George Clooney nella pubblicità di una nota marca di caffè, un aroma di torrefazione che – coincidenza… – non manca tra quelli di bocca avvertiti. Equilibratissimo, il sorso avanza con passo sicuro attraverso tutte le sensazioni olfattive precedentemente individuate, fermandosi su un altopiano di sapidità unico nel suo genere. Solo con grande fatica riesco a ricordarmi che possiede un’importante componente glicerica; in realtà, l’unica cosa che resta fissa nella mente è la grande pulizia di bocca, che lo rende perfetto non tanto con dessert e dolci della tradizione (zelten, panforte o pampepato che dir si voglia), quanto piuttosto con formaggi erborinati di grande carattere e invecchiamento. A voi la scelta, tanto non sbaglierete.