Un colore antico e brillante, un’ambra che ricorda le resine che al loro interno incastonano un incanto, un momento di vita che diventa sempre importante quando è accompagnato da un nettare come il Tokaji. Il vino botritizzato più famoso d’Ungheria nacque nel 1630, quando un tale Máté Sepsy Laczkó fece raccogliere le uve ormai ammuffite e avvizzite che per distrazione erano rimaste sulle piante dopo la vendemmia. Da questo episodio gli ungheresi – grazie alle caratteristiche della muffa nobile che si era impossessata di quegli acini avanzati – ebbero un nuovo eroe e scoprirono un gusto nuovo, che cercarono di fare proprio e ripetere attraverso l’uso di una tecnica innovativa per regolare la dolcezza finale del nettare prodotto. Così, per caso, nacque il Tokaji Aszú. Il termine aszú indica la pasta di uve appassite attaccate dalla pourriture noble, molto ricca di zucchero, che viene aggiunta al vino base in contenitori da 25 kg chiamati Puttonyos, facendo partire una seconda fermentazione: il numero di Puttonyos aggiunti al vino dà il nome al Tokaji e ne determina la ricchezza (struttura e dolcezza) e la qualità.

Il vino che sto per assaggiare oggi è un Tokaji Aszú 6 puttonyos e ha un residuo zuccherino compreso tra i 150 e i 180 g/l. Lo produce la Disznókő (azienda oggi di proprietà del gruppo Axa), con le uve coltivate in una delle prime storiche vigne, individuate e classificate già dal 1737. Si trova su un rilievo collinare ai piedi dei monti Zemplén, tra Mád e Tokaj (proprio il paese che dà il nome al vino: Tokaji, cioè di Tokaj), nella valle del Tibisco, in una delle migliori aree per la coltivazione di Furmint, Hárslevelű, Sárgamuskotály (moscato), Zéta, Kövérszőlő e Kabar, che qua crescono su un suolo argillo-sabbioso su base vulcanica. La tipica bottiglia dal collo lungo e sottile lo rende facilmente riconoscibile, stimolando i miei sensi e preparandoli alla degustazione di un «vino dei Re e Re dei vini», come da molti veniva (e viene ancora) chiamato, per la sua stabile presenza in tutte le residenze reali della vecchia Europa.

Il suo colore ambrato brillante – cui ho fatto cenno all’inizio – fa pensare a un gioiello, fatto di perline che si rincorrono lungo la luminosa ed elegante collana di una signora dal portamento fine e nobiliare. La densità dei suoi 6 puttonyos non ha bisogno di sforzi per palesarsi: appena ruoto il calice,infatti, il Tokaji sale e si sofferma con dolcezza sulle sue pareti, ancor più brillanti ma non più trasparenti. Al naso esprime una grande ricchezza di profumi, legati a maturità e terziarizzazione, come tartufo bianco, burro fuso, sottobosco, porcini secchi e pasta di datteri, oltre all’iconica albicocca disidratata. In bocca ha una grande avvolgenza: entra con la dolcezza di una confettura di albicocca per poi espandersi, con densità, in tutto il cavo orale, senza essere mai eccessivamente opulento, perché uno spillo acido e sapido irrompe sul centro della lingua, per correre a rinfrescare la dolce struttura del vino. Un finale che parla di arachidi chiude un sorso magico e conturbante, che fortunatamente lascia spazio anche a un’ultima manifestazione di durezza, mettendo in luce una sapidità quasi salmastra, che rimanda probabilmente al suo territorio di origine lavica.

Un vino dal sapore lontano, direi saggio, che racconta di come il fato dia spesso il a intuizioni geniali, da preservare, coltivare e migliorare, perché possono portare alla costruzione di veri e propri modelli di gusto, come questo.