Il bello di essere sommelier non è legato soltanto al fatto che sai cosa bevi e riesci a valutarne la qualità, ma anche per quella sorta di ‘malattia mentale’ che ti prende e ti spinge a conoscere quelle persone che dedicano la loro vita, anima e corpo, a far sì che tu possa godere di un prodotto che è veramente una parte di loro, una loro creatura… E poi capita, se lo vuoi e se hai fortuna, che quelle stesse persone ti aprano la porta della loro casa – e a volte della loro famiglia – per condividere passioni, vite e storie.

Prima del covid, il 16 settembre 2019 (primo giorno della quindicesima edizione del Master Sommelier ALMA-AIS alla reggia di Colorno), incontro per la prima volta Irene Balim, che, incoraggiata dal suo compagno, nell’Ottobre 2018 aveva acquistato una cantina a Pazzano di Serramazzoni, tra i boschi di quercia e roverella dell’Appennino modenese. Così è nata la Società Agricola Cantina del Frignano e Irene, avvalendosi della collaborazione dello storico cantiniere Matteo, è diventata una vulcanica produttrice di vino.

La cantina esisteva dal 1993, quando il precedente proprietario – Luigi Boni – impiantò un primo vigneto sperimentale in collaborazione con la Regione Emilia Romagna. Oggi la Cantina del Frignano si sviluppa su 6 ettari di vigneti (di cui 5 produttivi e uno impiantato nella primavera 2020) tra i 450 e i 550 metri, con esposizione a sud e sud-est, su suoli decisamente più argillosi che calcarei e una produzione annuale dalle 22.000 alle 25.000 bottiglie. 

Vi si coltivano, in regime totalmente biologico, gli autoctoni Uva Tosca, Malbo Gentile, Lambrusco Grasparossa e Trebbiano di Modena, oltre a Trebbiano Romagnolo, Gewürztraminer, Malvasia di Candia, Trebbiano Spagnolo, Pinot Noir, Chardonnay, Merlot e Cabernet Sauvignon.

Durante una recente degustazione alla cieca con Irene, mi imbatto in un vino bianco fermo che, appena versato nel calice, mette in mostra una straordinaria brillantezza, degna quasi dei migliori metodo classico, dal colore giallo paglierino piuttosto intenso e con una consistenza che denota una percentuale alcolica non indifferente. Affascinata, lo porto immediatamente al naso e le mie narici sono pervase da note fruttate e floreali su toni dolci, soprattutto litchi, pesca, mango, acacia e tiglio e, alle successive olfazioni, anche una nota erbacea di salvia.
La bevuta è importante: il vino denota una struttura che lo rende quasi masticabile ed è dotato di una freschezza che richiama senza indugio il sorso successivo, in un bell’equilibrio tra acidità e sapidità e con una piacevole persistenza delle note fruttate di pesca e mango.

Inconsciamente la mia mente lo alloca – per il colore, i profumi e la consistenza – in una zona del centro Italia, dalle parti di Frascati, finché Irene non mi rivela che si tratta di un vino di sua produzione: l’Edda.

L’annata che abbiamo degustato di questo Emilia IGP Vino bianco fermo è la 2020, la seconda prodotta in 1.000 bottiglie circa, perché «mancava nella nostra linea di prodotti un vino bianco fermo», mi racconta. L’uvaggio, piuttosto elaborato, è composto di Trebbiano Romagnolo, Trebbiano Modenese e Trebbiano Spagnolo (ciascuno per circa il 25%) lasciati sovramaturare in pianta, con Gewürztraminer e Malvasia di Candia per il restante 25%. La raccolta delle uve, depositate in cassette da 25 Kg, viene svolta manualmente e la fermentazione in vasche di acciaio – a temperatura controllata di 16 °C – porta il residuo zuccherino a zero. La durata della sosta sulle fecce è di 5 mesi e l’alcol in etichetta è segnalato al 13,5%.

Quando le chiedo da dove proviene il nome, Irene mi dice che Edda è il nome della mamma di Fernando (il suo compagno), una donna minuta, dolcissima nelle espressioni e nei modi (come le note olfattive del vino), ma dal carattere fortissimo (come la struttura e il gusto): la tenacia e la delicatezza, come riportato in etichetta. E allora «W L’Edda» e le sperimentazioni!